mercoledì 27 agosto 2014

Bar sport.

Denise ©

C'è un bar.
C'è una piazza.
C'è un portico.
La pioggia.
Le luci dei lampioni riflesse sull'asfalto bagnato.
Un canale.
Io dentro al bar.
Anzi no. Io fuori dal bar.
Quel misto di caffè, sigarette, grappa e canfora, che ancora certi anziani usano, mi disgusta.
Ho un serio rigurgito per questo tipo di posti. Pub compresi. Lì l'odore di caffè, sigarette, alcool e litri su litri di profumo, neanche fossero le fabbriche di Channel n.5, mi stomaca ugualmente.
Me ne sto fuori, seduta sul bordo di uno dei ponticelli di Comacchio.
Guardo dentro.
Guardo in alto.
L'insegna dice. Bar sport.
La mia testa legge: Cazzo! Benni deve averlo scritto qua!

Neanche la vetrina della più lussuosa boutique poteva rifilarmi uno per uno tutti i personaggi del romanzo.

Compresa la Luisona. Era là. Nell'angolo del bancone, vicino al corridoio che inspiegabilmente dà in quel posto X buio che tutti i bar possiedono; in una vetrinetta per paste che, pressapoco, deve aver visto l'ultimo panno per la polvere che io ancora non ero nata. Magari intorno a quella vetrina hanno costruito il bar. Chissà.
Una reliquia. Me lo sento. Santa Anguillonia  di Bar Angulus (ok. L'immagine non rappresenta il concetto. E sinceramente fa un po' schifo anche a me pensare che un qualcosa contenente zuccheri cristallizzati e crema ormai tornata ad essere un pulcino possa essere associata ad un'anguilla; ma tant'è che siamo a Comacchio, quindi un po' di fantasia!).
In ogni caso, nessuno se la filava, salvo qualcuno accendersi una sigaretta come si accende una candela davanti all'altare. Inchino, bacio alla teca, rosario con santi in caduta libera e avanti il prossimo.

L'insegna funzionava uguale. Ad intermittenza. Quel bar poteva avere mille nomi a seconda dell'orario.
Potrei anche pensare: non male! Abbasso la monotonia! Ma per chi soffre di perdita di memoria, diciamolo, non è il massimo (sempre che non voglia scappare dalla moglie).

Le attrazioni, così classificate dallo scrittore, erano posizionate lungo una linea immaginaria, schierate come ad una parata: biliardi all'angolo tra una coltre di nebbia e luci soffuse neanche fossimo in una bisca clandestina (sottolineo che si trattava della specie del biliardo occupato, che io non ammiravo da tempo immemore, abituata alle gare in paese in cui giovani che oscillano tra i 40 e gli 80 anni sfoderano mosse che neanche il lancio del peso può sopportare. Troppa potenza rischia di uccidere lo spettatore semicomatoso sulla sedia posta diritta per dritta al lanciatore); flipper annata XXXX, con fantasia non ben definita e con contatore a orologio; anziani impegnati in partite millenarie di carte (qualsiasi gioco va bene, basta star lontano da casa. Anzi; basta star lontano da chi c'è in casa); barista in perenne lucidatura di bicchieri (anche quelli che non usa più, chissenefrega! Vale anche qua il concetto: "teniamo il salotto pulito, vedi mai che ci viene a trovare Qualcuno") e che guarda con occhio vitreo una tv a tubo catodico.
In successione: il pescatore di boero, il tecnico, il tuttofare, il professore, l'uomo con il cappello, un bambino spuntato come un fungo da sotto il bancone (data l'umidità comachiese tutto è possibile), la signora tirata a lustro come a Natale insieme all'amica e lui: il nonno da bar.
A dire il vero presenziava più di un nonnino.

Mi si è stretto il cuore.
A ogni: Kkkkkrrrrroooooaaaarrrrkkk (pre scattarrata).
No.
Mi si è stretto il cuore.
Ad ogni naso in su verso quella tv con immagini senz'audio.
Ad ogni sorriso sdentato e a quella bestemmia campata in aria.
Ad ogni occhio nascosto dietro ad occhiali troppo sporchi di ricordi e ditate di nipoti.
Ad ogni bicchiere vuoto pieno di amara consolazione.
Ad ogni portafoglio con una foto da portare vicino al cuore.
Ad ogni sonnellino sulla sedia più consumata del bar.
Ad ogni nonno da bar che non divide il tavolo con l'altro; che poi magari si conoscono, forse saltavano insieme i fossi per la lunga, ma che per screzi centenari e un senso di infondata e prolissa testardaggine l'unica cosa che condividono ancora è il silenzio e quel ritmo nervoso delle dita picchiettate sul tavolino.

A mio nonno che, da quella mattina, dal bar non vi è mai uscito.

10. Altro voto non posso dare se non un 10.

Chiudo l'ombrello.
Sposto lo sguardo.
C'è l'arcobaleno.


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